Giulia Giordano

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LA CONFESSIONE 2012, UNO TSUNAMI DI UMANI INCONFESSABILI PECCATI

LA CONFESSIONE 2012, UNO TSUNAMI DI UMANI INCONFESSABILI PECCATI

Posted by on Mag 6, 2012 in Rassegna Stampa | 0 comments

 

foto di Emiliano Cavicchi

di Fanny Cerri

 

Di Walter Manfrè si dice che abbia inventato il primo piano a teatro. E il teatro vince sul grande schermo, in una competizione palesemente antieconomica come quella della visione ravvicinata, perché mai, al cinema, sentirai poggiarsi delicatamente sulla tua guancia o sul tuo sterno la mano dell’attore, mai un personaggio ti soffierà in faccia, mai ti sorprenderà il suo caratteristico odore. Mai, al cinema, sarai costretto ad abbassare lo sguardo, per evitare che il protagonista del film si accorga che stai piangendo.

Ne La Confessione, l’attore e lo spettatore vivono una responsabilità paritaria, uno a uno: tanti spettatori quanti sono gli attori, non uno di più. Il palcoscenico è un minuscolo inginocchiatoio, la platea è un’unica sedia. L’attore si inginocchia e confessa il peccato più intimo e osceno all’orecchio di un solo ascoltatore alla volta che ne prende su di sé il carico.

Il pubblico, lo spettatore, è investito di una missione sacra, sacerdotale: dovrà esercitare con coscienza la difficile arte dell’ascolto, dovrà saper accogliere in sé anche l’umanità più reietta che gli viene affidata, teso solo ad una comprensione intima di ciò che gli è comunicato. Allo stesso tempo confessore e psicologo, come un vecchio prete di campagna, lo spettatore permette all’attore di raccontarsi, di sentirsi visto e accolto nella sua imperfezione, di liberarsi della propria vergogna. E si crea tra i due un rapporto di intima confidenza, di reciprocità.

La responsabilità di chi ascolta è quella di aprirsi, di immergersi senza un giudizio precostituito nel mistero della complessità umana, di attivare in sé una coscienza individuale sincera che, una volta usciti dal teatro-confessionale, andrà inevitabilmente a confluire in una nuova e più profonda coscienza sociale. L’attore, da parte sua, pur interpretando un testo d’autore e un personaggio, sarà costretto a portare in scena sé stesso, la propria carnalità. A pochi centimetri di distanza da chi ascolta, anche il più sottile sospiro di tensione o la minima contrazione del volto saranno percepiti. A quella distanza, la persona dell’attore non può restare salva, nascosta dietro il personaggio, se non a rischio di essere tagliata fuori, rifiutata nell’ascolto, accusata di menzogna.

La sacralità del teatro si celebra attraverso un rito intriso di paganesimo. Venti piccoli inginocchiatoi sono distribuiti nello spazio a costruire una via crucis. Gli spettatori-sacerdoti restano seduti, ognuno al proprio posto, nel proprio confessionale. Gli attori-peccatori sfilano invece in una processione lentissima, cadenzata. Al suono di una campanella, la processione si ferma e ogni attore si inginocchia a una stazione, a confessare il proprio peccato al sacerdote che lo aspetta; suona di nuovo la campana e l’attore tace, si rialza, pronto a confessarsi di nuovo alla stazione successiva, in un purgatorio itinerante che sembra non debba avere fine.

E’ un succedersi di confessioni orripilanti, scritte dai più grandi drammaturghi e scrittori contemporanei (da Dacia Maraini a Giuseppe Manfridi, per citarne un paio) e da alcuni giovani autori, che hanno amato il progetto e hanno saputo dare un proprio valido contributo. Ma al di là della qualità dei testi e dei singoli peccati, che suscitano repulsione, indignazione, riso, pianto, sorpresa, quello che si impone ne La Confessione è la carrellata impressionante di varia umanità, còlta nelle sue più minute sfaccettature: una sarabanda di volti e di voci e di respiri, di individualità irripetibili ed estreme.

E’ un Teatro della persona, quello di Walter Manfrè. Eppure, mentre si ascolta una storia in particolare e la si vive in una vicinanza sconcertante, si riesce anche a percepire sullo sfondo un coro di bisbigli e di respiri sofferenti, come da un girone dantesco: l’esperienza si sviluppa sui due piani altrettanto importanti del vicino e del lontano, del primo piano e dello sfondo. E’ un’umanità corale, imperfetta, lacerata da inspiegabili contraddizioni, a riempire la scena. L’attore, con la sua presenza fisica singolare, rappresenta sé stesso, ma anche il genere umano nella sua interezza: è effimero e passeggero, legato al suono di una campanella che sancisce l’inizio e la fine della sua narrazione, ma è anche depositario di una storia millenaria che continua, è l’elemento fondante di un’umanità che sorprende e sconvolge sé stessa.

Presentato per la prima volta nel 1993 al Festival di Taormina, La Confessione ha continuato a girare il mondo, capillarmente (dall’Europa all’America Latina), con attori sempre nuovi, italiani o scelti tra quelli del luogo di destinazione. Il richiamo che diffonde è quello dell’attore di teatro, eternamente in cerca dello spettatore, povero, supplicante, vergognoso della propria condizione, ma ostinato a raccontarsi, convinto che l’atto della narrazione di sé, impudica, faccia a faccia, sia la strada più importante, se non l’unica, per il progresso umano.

In concomitanza con la messa in scena dello spettacolo, il fotografo Emiliano Cavicchi presenta un’installazione di trentacinque ritratti degli attori, scattati durante le prove. Il progetto sarà visibile nel foyer del teatro Valle Occupato per tutta la durata dello spettacolo (info: www.emilianocavicchi.com).

 

LA CONFESSIONE 2012

di Walter Manfrè

con la partecipazione, tra gli altri, di attori del Teatro Valle Occupato

fotografia di copertina Emiliano Cavicchi

 

dal 3 al 6 maggio al Teatro Valle Occupato

Per maggiori informazioni sullo spettacolo, sugli orari e sulla nutrita rassegna stampa, consultare il sito internet del  Teatro Valle Occupato

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CANNES, ARRIVANO I NOSTRI – Ufficio Spettacoli

CANNES, ARRIVANO I NOSTRI – Ufficio Spettacoli

Posted by on Mag 20, 2011 in Rassegna Stampa | 0 comments


A noi di Ufficio Spettacoli piace raccontare di messinesi che fanno qualcosa di speciale. Perciò capirete la nostra eccitazione quando un concittadino va, per esempio, al Festival di Cannes. Pasquale Marino, 30 anni, ci sarà, con il suo cortometraggio L’estate che non viene. Il corto racconta di tre giovani borgatari che in un pomeriggio di maggio vanno a cercare la loro professoressa per convincerla a non bocciare uno di loro, perché la bocciatura causerebbe la fine della loro amicizia. Pasquale ha studiato al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma e quando gli chiedo cosa ha provato alla notizia che il suo corto sarebbe volato a Cannes, mi risponde “Mia nonna mi ha insegnato a manifestare entro certi limiti i miei stati d’animo: in produzione erano tutti colpiti dal mio contegno. Ma ovviamente mi veniva da piangere”. Confesso di avere l’abitudine di chiedere, ai nostri messinesi speciali, quanto di Messina ci sia nei loro lavori. Ma la risposta può essere anche di questo tipo: “Non esiste uno ‘spirito’ messinese. Il valore di alcuni comportamenti è tale perché ha un significato universale. Molti tendono a ritenere che delle cose comuni siano speciali perché siciliane o messinesi”. Spiazzante. Ma Pasquale precisa: “Chi svolge professioni artistiche in provincia ha una cultura più raffinata rispetto a chi opera nei grandi centri, perché dalla periferia ci si mette in contatto con mondi lontani, più stimolanti”. Non è solo il corto di Pasquale a renderci orgogliosi, in questi giorni. C’è anche Giulia Giordano, attrice messinese con una parte nell’ultimo film di Nanni Moretti, Habemus Papam, anche questo in concorso a Cannes. “Una scena di un minuto, un solo giorno di set. Ma mi è sembrato di imparare più che in un anno di accademia. Moretti è un vero perfezionista e si attornia di collaboratrici e collaboratori fantastici e gioiosi. Si dovrebbe sempre respirare un’atmosfera così bella quando si lavora”. È stata Giulia a segnalarci il corto di Pasquale Marino, quando l’abbiamo contattata per farci raccontare di Moretti. “Parlate di lui, il mio contributo a questo film è stato veramente piccolo” ci ha detto. Non così piccolo da non renderci fieri di lei.

di Caterina Mittiga

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